Qui non ho visto nessuna farfalla

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Materiali per una didattica della memoria

Anno di pubblicazione: 2006

 

 

La pubblicazione completa è in dotazione alla mostra e viene consegnata ai docenti accompagnatori.

Seguono alcuni stralci dell'opuscolo la cui versione completa può essere inviata su richiesta.

L'attività proposta a titolo esemplificativo "Il potere delle parole" va ovviamente  inserita in un contesto più ampio di attività e approfondimenti.

 

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QUI NON HO VISTO NESSUNA FARFALLA

Materiali per una didattica della memoria

 “Ciò che vivo interiormente, e che non è esclusivamente mio, non ho il diritto di tenerlo solo per me. In questo piccolo frammento di storia dell’umanità, io sono forse uno dei numerosi ripetitori che deve poi trasmettere su una distanza più lunga.”

Etty Illesum, “Diario 1941-43

 

Dalla memoria al progetto: educare per crescere

La memoria è esperienza, vissuti che attraversano le generazioni lasciando segni che non scompaiono ma si raccolgono per ulteriori passaggi.

L’apprendimento dalla memoria risulta efficace quando è organizzato in modo da sintonizzarsi con le risorse interne della persona, favorendo nuove connessioni e nuove conoscenze.

Da queste premesse nasce la mostra interattiva Qui non ho visto nessuna farfalla – Quadri di memoria, un originale percorso dentro la tragedia della deportazione nei campi di sterminio nazisti, rivolta ai ragazzi e alle ragazze dai 12 ai 16 anni.

Con la consapevolezza che ciò che è avvenuto non risulta né totalmente dicibile né totalmente comunicabile, l’itinerario si propone di liberare l’orrore dalla necessità della verosimiglianza, per spostarsi sul territorio dell’evocazione narrativa, che consente l’empatia senza cadere nel senso d’impotenza tipico di quando le informazioni sovrastano la soglia di tolleranza emotiva e cognitiva.

 

Daniele Novara

Responsabile pedagogico della mostra

 


La mostra

L'Associazione COORDINAMENTO SOLIDARIETA' E COOPERAZIONE di Salerno, nell'ambito dell'attività di formazione,  destinata a docenti e studenti  per  la promozione di una cultura della pace, della nonviolenza e della legalità che svolge da dieci anni, ha realizzato una mostra interattiva per ragazze/i dai dodici ai sedici anni sul tema della deportazione.

E' il risultato di un lavoro di ricerca di un gruppo di docenti che, durante la loro pratica didattica, si sono posti il problema della trasmissione a ragazze/i, preadolescenti ed adolescenti,  della memoria  di un “fatto storico”, tanto complesso ed emotivamente molto forte, di fronte al quale si paventa spesso il rischio che, superando la soglia della tolleranza emotiva e cognitiva, possa  provocare solo senso di impotenza e  rimozione.

 D’altra parte è altrettanto concreto  il rischio di trovare in questo  timore l’alibi per ambigui e colpevoli silenzi, proprio nei luoghi deputati alla trasmissione della memoria, primo fra tutti la scuola,  per lasciare spazio al ripetersi di sterili rituali di commemorazione, rischio che diventa più evidente man mano  che, venendo sempre più a mancare la possibilità di ascoltare  i “testimoni”, la verità del vissuto storico può finire  con l’identificarsi con  una delle sue possibili interpretazioni.

Fermo restando l’unicità storica dell’esperienza della deportazione, è proprio dalla sua conoscenza che si può partire per cercare di guardare al passato e ancor più al presente con rinnovata capacità critica, nella speranza che, nonostante il ripetersi degli stessi ingiustificabili comportamenti da parte degli adulti, la storia possa infine diventare veramente maestra di vita  proprio per ragazzi e ragazze nel periodo della loro formazione culturale ed umana al di là della retorica delle programmazioni scolastiche.

Si è dunque pensato  di utilizzare una metodologia interattiva che, attraverso la proposta del viaggio evocativo e simbolico, susciti curiosità ed interrogativi per stimolare interesse e quindi desiderio di approfondire e sapere, già a partire dal titolo " QUI NON HO VISTO NESSUNA FARFALLA", un verso della poesia di Pavel Freedman, uno dei quindicimila bambini  rinchiusi nel campo di Terezin, poi mandato ad Auschwitz dove ha trovato  la morte.

Il suo è il ricordo struggente dell'ultima, proprio l'ultima  farfalla, di un  giallo così intenso, così assolutamentegiallo, come una lacrima di sole quando cade sopra una roccia bianca, vista fuori del ghetto. E' il simbolo della sua infanzia negata, della libertà perduta, della vita stroncata da una logica assurda ed incomprensibile agli occhi di un bambino. Come la vita di una farfalla dura un giorno, così la sua vita durerà troppo poco per poter realizzare i propri sogni.

Proprio seguendo il filo dei ricordi i giovani visitatori sono invitati a ripercorrere l'odissea dei deportati attraverso dieci ambienti tematici, definiti "quadri", corredati da immagini, video, testimonianze, documenti storici. L'intento è quello di uscire dal modello solo visuale - che implica una ricezione piuttosto passiva e a volte spettacolare - per coinvolgere direttamente i ragazzi in attività strutturate (role-plays, simulazioni, disegni, ecc.) e guidarli, attraverso la metafora del viaggio, a vivere esperienze di esplorazione della memoria, le sole efficaci a creare nuove connessioni  e nuove conoscenze.

E’ evidente che si tratta di un percorso che non pretende esaustività storica né filologica e che rinuncia di proposito alla crudezza tipica di molte immagini documentarie, puntando invece al linguaggio immediato e diretto delle testimonianze e delle narrazioni, a quello dei fumetti, delle sequenze filmiche, delle opere grafiche di artisti sopravvissuti all'orrore. Il gruppo di ricerca, nel suo progetto, è stato sostenuto dalla consulenza pedagogica del Direttore del CPPP  Daniele Novara e dalla consulenza storica del responsabile della programmazione didattica della Fondazione Villa Emma di Nonantola, il prof.  Fausto Ciuffi.

Il percorso completo, per una scolaresca divisa in gruppi da quattro/sei allievi, dura circa 2 ore: all'ingresso i ragazzi, accolti da un animatore, ricevono un taccuino di viaggio che li accompagnerà per tutto il percorso e che poi porteranno con sé. Dopo essere passati attraverso uno spazio che simula l'interno di uno dei vagoni ferroviari usati per la deportazione, iniziano il "viaggio" conoscitivo in dieci tappe: la discriminazione, la destinazione ignota,  la lingua sconosciuta, la divisa, la punizione, il freddo e la fame, la solidarietà, la fatica  e il lavoro, i ricordi, il ritorno.  

Al congedo, che vuole chiudere in positivo il percorso, ognuno scrive ad un coetaneo in forma anonima un messaggio su questa esperienza (una frase, un'emozione…) per fissare e comunicare la memoria di ciò che ha vissuto. Agli insegnanti viene consegnato un kit didattico per l'approfondimento e la ricerca, basato su testimonianze, brevi filmati e ulteriori attività da svolgere con i ragazzi in classe,  bibliografia, sitografia e filmografia essenziali.

 E' un'occasione formativa rivolta al mondo della scuola per potenziare nei giovani la capacità di leggere diacronicamente i fatti storici e per sperimentare nuove modalità di trasmissione della memoria che sappiano avvicinare le generazioni  per costruire insieme forme di resistenza critica alla discriminazione e alla violenza.

I docenti interessati a realizzare progetti di educazione alla pace, di educazione interculturale o sulla Memoria della deportazione, possono far riferimento all’Associazione Coordinamento Solidarietà e Cooperazione di Salerno per una consulenza metodologico–didattica e per una  ulteriore documentazione scritta o multimediale.

 


La memoria formativa

Dieci adulti su cento a Hiroshima ignorano,

molti più in Giappone –

e quanti al mondo ne trasalgono?

Si è ricostruito muri divisori

di case a caso, una vecchia città

coi poveri e coi ricchi, chinandosi

al modello che ha vinto:

incravattarsi, cocacolizzarsi,

spaghetti e pesci plasticati nelle vetrine,

intimi vibratori per femmine sole,

l'orinatoio sciacqua automatico

fotoelettricamente.

Dove era scoppiato lo sterminio,

in squadrati giardini

posano ignare colombe

all'orlo di vaschette con pesci rossi

e curvi schizzi di fontanelle

presso il museo commemorativo.

La cancrena delle macerie

doveva restare intatta –

gli orologi fusi a segnare le 8,15

quando le carni bruciavano

fondevano alla pelle i vestiti

tegole colavano bottiglie liquide

porcellane antiche evaporavano

ferro torceva come erba

fuoco rodeva le pietre,

e chi alla troppa luce copriva gli occhi

avvampavano le mani.

Intatto doveva restare il Marchio di Little Boy

calcolata con le tecniche più raffinate

a distruggere seminando cancro.

Si è trapiantato nell'erbetta verde

rose spedite dai pietosi di altri paesi

invece di invitare a meditare.

Si è tentato di coprire lo squarcio?

Ma questa era una ferita da tenere nuda.

La terra costa cara?

Altra se ne doveva trovare per costruire.

Costa, viaggiare?

Ma quanto costa la vita?

Danilo Dolci

1.     Pluralità di memorie

Nel 1851 Cesare Cantù, filosofo moraleggiante di area conservatrice se non reazionaria, ripubblicava a Milano, presso lo Stabilimento Librario Volpato, un libercolo dal titolo Fior di memoria pei bambini[1], in cui raccoglieva una serie di poesiole che le madri avrebbero potuto raccontare ai loro fanciulli per creare una memoria che non fosse fatta di quei turpi linguaggi che l’autore stesso deplora all’inizio del suo libro, ma di amene reminiscenze letterarie in modo che i pargoli potessero gustarne la valenza morale. È un libretto per tanti versi simpatico perché mostra senza mezzi termini il senso nostalgico e ideologico della memoria, ossia una selezione memorialistica in funzione di uno scopo che per il Cantù era quello di addomesticare le coscienze giovanili in funzione dei bei tempi andati. Nostalgia e ideologia sono due modalità di gestione delle memoria[2] che ci mostrano come sia difficile fare un discorso unitario sul tema della pedagogia della memoria. In altre parole non esiste un’accezione che può considerarsi legittimata universalmente, esistono piuttosto tante modalità. La memoria anzi è spesso diseducativa, fomentatrice di violenza piuttosto che il suo contrario. Casi emblematici sono ogni giorno sui giornali. Di recente in India (ad Ayodhya, nella regione dell’Uttar Pradesh) attorno a un tempio conteso fra induisti e musulmani sulla base di una storia vecchia di cinquecento anni si è riaccesa una violenza endemica che ha portato a migliaia di morti.[3] Lo stesso peraltro è avvenuto con la guerra in Kosovo, dove i Serbi intendevano a tutti i costi regolare i conti con i Kosovari in quanto il Kosovo da loro è considerato terra sacra perché nel lontano 1389 in quel territorio ci fu una sanguinosa sconfitta dei Serbi stessi da parte dei Turchi. Questo ha sacralizzato il territorio per i Serbi in funzione di una vendetta che prima o poi dovrà avvenire.

Come si può vedere da questi esempi, va mantenuto un atteggiamento molto cauto nei confronti di una visione edulcorata della memoria. Di per sé la memoria non è portatrice di valori positivi o di nonviolenza o di pace. Il più delle volte al contrario la memoria propone contenuti di rancore e di vendetta.

Né ci si può accontentare di un’altra categoria tipica della memoria, cioè la memoria ingessata, mummificata, che può servire agli storici per far il loro lavoro ma che non ha una particolare capacità di evocare nelle nuove generazioni strumenti di trasformazione positiva del presente, e quindi mantiene una forte rilevanza da un punto di vista dei contenuti storici ma non necessariamente questi contenuti storici diventano automaticamente dei valori etici o delle trasformazioni positive.

Con questo mio intervento intendo pertanto proporre il concetto di memoria formativa come concetto di una memoria che sa assumere l’eredità del passato anche da un punto di vista storico ma si assume prioritariamente la responsabilità di vitalizzare questa memoria e questo passato in funzione dei problemi e delle domande che il presente solleva. Non solo: può essere che anche il passato – ossia la memoria – nasconda dei problemi che servono ad affrontare meglio il presente. C’è quindi uno scambio in questa memoria formativa fra presente e passato che garantisce la possibilità di creare le migliori condizioni di convivenza possibile, a prescindere da contenuti retorici, moralistici o ideologici. È una memoria che si sforza di creare, specialmente nelle nuove generazioni, quella capacità di leggere diacronicamente i fatti e di garantirsi una capacità anche di resistenza critica. In altre parole la memoria formativa si propone di lasciare, di generazione in generazione, un mondo un po’ migliore rispetto al modo in cui l’ultima generazione l’ha lasciato.

 

2.     La soggettività estrema della memoria

Mia figlia di 13 anni mi ha fatto leggere un tema scritto su un ricordo di infanzia, in cui parlava di un bambino suo coetaneo, vicino di casa, con cui ha trascorso tutti gli anni dell’infanzia. Nel tema riportava un episodio che non soltanto non è mai accaduto, ma che non poteva nemmeno avvenire. Perché l’aveva citato? Tutto il tema era centrato sull’idea che la loro amicizia era talmente forte da resistere a ogni ostacolo, anche ad un ostacolo impossibile (in quanto inesistente). Per sostenere il suo discorso mia figlia aveva introdotto nella memoria un episodio che non era avvenuto né poteva tecnicamente avvenire. Ho letto il tema di mia figlia mentre stavo leggendo un libro di Anna Rossi Doria, intitolato Memoria e storia, in cui l’autrice, una storica, definisce il rapporto problematico tra la memoria come campo soggettivo e magmatico e la storia come tentativo di ricostruzione centrata su elementi fattuali. Citando Pierre Nora dice: “La memoria è sempre sospetta alla storia, la cui vera missione è distruggerla e rimuoverla. La storia è delegittimazione del passato vissuto. Spesso i protagonisti e i testimoni di un evento o di un’epoca non si riconoscono nelle ricostruzioni che di essi vengono fatte dagli storici”.[4]

Un’altra esperienza che vorrei riportarvi proviene dal mio lavoro. Utilizzo, nella formazione degli educatori, il metodo autobiografico. Invito le persone a lavorare sull’educazione ricevuta per rafforzare la proprie capacità educative. Uso da anni una serie di tecniche piuttosto consolidate e tutto fila liscio finché esploriamo la memoria discrezionale e soggettiva del corsista, ad esempio proponendo a ciascuna coppia di corsisti di farsi un’intervista reciproca sull’educazione ricevuta, oppure di costruire una genealogia grafica della propria educazione ricevuta. C’è però un esercizio in cui chiedo ai corsisti di analizzare le foto dell’educazione ricevuta, cioè le foto dell’infanzia che li ritraggono accanto a persone significative per la loro formazione. Lì la situazione cambia completamente: di solito si scatena una profonda emotività, perché la foto è un frammento oggettivo del passato, è un momento di vita fermato da un’istantanea, è qualcosa che rimanda a fatti davvero accaduti. Non è qualcosa che il corsista può manipolare: è quello che è. La foto d’infanzia è scioccante perché è vera, si sottrae al filtro della memoria, e per questa sua realtà introduce un conflitto fra quello che non vogliamo vedere (il passare del tempo) e la realtà. Non sono sessioni formative particolarmente facili. È una tecnica che va utilizzata in setting particolarmente protetti.

La memoria ha ben poco di oggettivo. Penso sarà capitato anche a noi di raccontare un episodio del passato con amici con cui l’abbiamo vissuto e di non trovare il loro consenso sulla ricostruzione dei fatti. Da questo punto di vista è interessante il libro di Milan Kundera L’ignoranza[5], che ad un certo punto riporta proprio questa esperienza: una donna fa l’amore con un uomo convinta di averlo incontrato vent’anni prima, e soltanto alla fine del racconto si rende conto che si tratta in realtà di un perfetto sconosciuto. Dice Kundera: “Non criticheremo mai abbastanza chi deforma il passato, lo riscrive, lo falsifica, chi enfatizza l’importanza di un avvenimento tacendone un altro. Sono critiche giuste, non possono non esserlo, ma di scarso rilievo se non le precede una critica più elementare della memoria umana in quanto tale. Ben misero potere il suo: del passato non è in grado di ricordare se non una insignificante e minuscola particella senza che nessuno sappia perché proprio questa e non un’altra, giacché in ciascuno di noi tale scelta si opera in maniera misteriosa, indipendente dalla nostra volontà e dai nostri interessi. Non capiremo nulla della vita umana se continuiamo a eludere la prima di tutte le verità: una realtà così com’era quando era non esiste più, restituirla è impossibile”[6].

Ritorno su quanto cercavo di dire all’inizio: è uno sforzo titanico ma inutile e controproducente cercare di ingessare la memoria. La memoria varia probabilmente in funzione dei problemi che dobbiamo affrontare. Ad esempio, è probabilmente più facile ricordare l’infanzia nella seconda parte della vita (pensiamo a un libro come Le ceneri di Angela[7], scritto dall’autore in età avanzata) che non da giovani, per la necessità impellente nella seconda fase della vita di ricostruire i nodi biografici lasciati in sospeso durante il periodo proteso alla pura e semplice realizzazione personale. Lavorando sull’autobiografia infantile i ventenni sono più in difficoltà dei cinquantenni nel ricostruire episodi della loro infanzia, perché c’è una necessità di rivedere alcuni passaggi del proprio passato quando si raggiunge l’epoca del bilancio della propria vita.

Certo la memoria è anche manipolazione. Ricordo all’Università la mia sorpresa quando scoprii che non solo Garibaldi non era quello che mi avevano presentato per tutta la scuola fino alla maturità, ma un socialista di area umanitaria che aveva partecipato a due Internazionali Socialiste. Eppure ancora oggi la scuola rimanda spesso un’immagine di Garibaldi, elaborata dal fascismo, come di un uomo sostanzialmente monarchico. La manipolazione della memoria è quasi sempre la normalità piuttosto che l’eccezione.

3.     Esiste una didattica della memoria?

La didattica è stata spesso una forma di costrizione della memoria, specie la didattica di materie che hanno valenza di consenso sociopolitico: la didattica retorica e conformista delle verità acquisite e dei valori indiscutibili. Provate però a chiedere a un qualsiasi alunno italiano se ricorda il contenuto dell'articolo 11 della Costituzione: non lo conosce nessuno! Questa didattica della conferma che non chiede spirito critico e problematizzazione non paga; la passività è comunque perdente anche quando gli alunni ripetono pedissequamente ciò che agli insegnanti piace ascoltare. Questo modello di didattica impedisce di usare la memoria come mezzo di apprendimento proprio perché impedisce l'atteggiamento critico. Riguardo ai temi della violenza e della guerra la memoria non potrà mai essere un antidoto automatico.

Prendiamo ad esempio il ruolo della vittima. Nei primi anni Novanta ricordo di aver curato delle iniziative nella ex Yugoslavia per soccorrere le vittime. È noto a tutti che negli anni successivi le vittime hanno fatto esattamente le stesse cose ai loro vecchi aguzzini, purtroppo. Se non c'è un lavoro di rielaborazione della memoria nemmeno l'esperienza di essere vittime garantisce dalla tentazione di riprodurre la violenza subita. La storia continua a rimandarci questo messaggio (compreso ciò che sta succedendo sotto gli occhi di tutti in Palestina). La comunità internazionale sta finanziando il ripristino delle scuole in Bosnia. Nel dicembre 2001 Le Monde éducation ha pubblicato un articolo in cui denuncia come queste scuole tendono quasi sempre a riproporre l'odio, la divisione e la continuazione della guerra in altri modi. L'articolo si intitola significativamente "In Bosnia si insegna prima di tutto l'odio". Ogni piccolo cantone etnico (ce ne sono tantissimi in Bosnia) ha una sua storia, che esclude la storia degli altri. L'attentatore dell'arciduca Ferdinando, che fornì il casus belli della Prima Guerra mondiale, nei libri di storia dei cantoni serbi è un eroe, mentre negli altri è dipinto come un terrorista. Non c'è spazio per un incontro: a seconda del luogo in cui ci si sposta troviamo soltanto la storia dei croati, o soltanto la storia dei serbi, o soltanto la storia dei musulmani. Ben poco sta mettendo in discussione i motivi profondi per cui certe situazioni si sono scatenate.[8]

Questa è la memoria ingessata: non c'è la possibilità di mettere in discussione la propria storia, per arrivare a uno spazio di cambiamento. Anche in Italia ci sarebbe stato bisogno di rivedere criticamente il ventennio fascista. Questo non è stato fatto, e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Bisogna trasformare il ricordo in un progetto innovativo di miglioramento fondato sul tentativo di crescere e quindi di cambiare. Cercherò di riassumere quello che può essere un progetto di nuova pedagogia della memoria in alcuni brevi punti.

·         Creare un conflitto tra la memoria e il presente. In che modo la memoria può servirci a un progetto di sviluppo del presente e nel presente? Quanto della memoria ci serve per affrontare i problemi di oggi? Come creare delle compensazioni diacroniche che diventino un'occasione di crescita?

Lavorando ad esempio sull'educazione ricevuta da piccoli dagli educatori si sbloccano certi nodi perché si vanno a toccare questioni pedagogiche fondamentali. La memoria viene utilizzata in questo caso per migliorare il proprio statuto professionale di educatori (o genitori), non per ingessarla o per fare il processo al passato. Lo scopo è l'analisi pedagogica[9] che facciamo dell'educazione dei nostri genitori, che ci consente di capire in che modo ci rapportiamo oggi con il nostro essere educatori. Questo confronto fra il passato e il presente apre un conflitto, un'area di divergenza che crea apprendimento.

·         Rifiutare la logica della risposta esatta. Penso sia più interessante aprire nuove domande, piuttosto che imporre delle risposte. Questo è un punto qualificante: l'apprendimento nasce dall’affrontare e gestire problemi. Tanto più i problemi sono reali tanto più c'è apprendimento: questo è centrale anche nell'ambito della memoria, per utilizzarla in senso trasformativo.

La nuova pedagogia dovrebbe puntare sull'apprendimento piuttosto che sull'adeguatezza. L'educatore dovrebbe chiedersi "Cosa ha imparato l'alunno?" piuttosto che "Cosa gli ho trasmesso?". La trasmissione di contenuti, per quanto straordinariamente interessanti, non ha di per sé valore formativo perché non garantisce automaticamente un apprendimento corrispondente. Fare una bella lezione, confezionare un bel prodotto didattico è spesso solo un atteggiamento narcisistico, centrato sul soggetto che educa (in linea con l'atteggiamento generale della nostra società consumistica); lo scopo finale è la gratificazione dell'educatore, senza portare a nessun cambiamento in chi viene educato. Credo invece che sia fondamentale preoccuparsi di cosa imparano gli alunni con cui siamo impegnati nell'esplorazione della memoria: questo è uno spostamento fondamentale dall'insegnamento (retorico, ripetitivo e nozionistico) all'apprendimento (lavorando su problemi reali i ragazzi si costruiscono un universo di significati, di comportamenti che corrispondono al loro mondo – un mondo che oggi ha ben poco a che fare con la memoria).

·         La memoria come compito

I ragazzi devono comprendere che la memoria è un compito, non un puro e semplice regalo. Ma in che modo la memoria è un compito? Ad esempio a volte il puro e semplice shock emotivo crea solo senso di impotenza nei soggetti in età evolutiva. Questo è assodato anche da studi psicologici: i bambini e i ragazzi non sono in grado di elaborare le esperienze scioccanti in un sistema di connessioni personali che produca comportamenti adeguati. Basti pensare alla distruzione delle Torri Gemelle: per alcuni bambini ancora oggi è solo uno spettacolo televisivo, perché non sono in grado di comprendere che lì c'erano migliaia di persone che hanno perso la vita nel disastro. Mentre parlare ai bambini di un ben personificato profugo di guerra loro coetaneo scatena un processo di identificazione empatica che porta a una comprensione ben più profonda del dolore altrui.

Per concludere direi che alcuni atteggiamenti nei confronti della memoria, quali la rimozione, il congelamento, la manipolazione non debbano interessare il lavoro formativo, che va piuttosto inteso come una sfida per riparare la memoria dai suoi obblighi perversi e farne un progetto di crescita liberante.

La memoria formativa è in altre parole una memoria vigile, attenta al rapporto fra passato e presente, pronta a cogliere le connessioni, a raccogliere domande e a trasformarle in cambiamenti possibili.

Retorica e spirito acritico sono le sue nemiche, come ci ricorda abilmente e spietatamente il grande poeta tedesco Erich Fried nella poesia “Debito di riconoscenza (50 anni dopo la presa di potere da parte di Hitler)”:

Troppo abituati a fremere di sdegno

per i delitti

dei tempi della croce uncinata

 

dimentichiamo di essere grati almeno un poco ai nostri predecessori

perché le loro azioni

 

possono pur sempre aiutarci

a riconoscere per tempo

il misfatto incomparabilmente più grande

che noi oggi stiamo preparando.[10]

 

tratto da MEMORANDA - Strumenti per la giornata della memoria - a cura di Daniele Novara, Ed. La Meridiana, Molfetta (BA) 2003

 


Memoria dell’orrore. Per una pedagogia del riconoscimento critico e del futuro

Doppiamente vittime

Una constatazione forte che parte dalla disamina degli episodi storici di guerra e di violenza, specialmente quando la violenza è stata coniugata nella logica dello sterminio, ci porta a una particolare riflessione sul rapporto fra vittima e carnefice. Come riscontrato da numerosi studi di area psicosocioanalitica[11], la tendenza inconscia della vittima a incorporare parti dell’aguzzino dentro di sé presenta l’inconveniente non certo secondario che in mancanza di una rielaborazione personale e collettiva della violenza subita le vittime si trasformano a loro volta in carnefici, quando le occasioni storiche consentano questa trasformazione. È un processo da un lato arcaico e dall’altro anche estremamente moderno e presente nelle varie situazioni che ci troviamo a seguire quotidianamente sui giornali e sulle Tv di tutto il mondo.

Non esiste la possibilità di uscire indenni dalla violenza subita semplicemente attuando un processo di rimozione e di accantonamento. Al contrario è fondamentale poter reincorporare criticamente il carnefice dentro di sé, rimetterlo al suo posto e creare un dialogo interno che permetta una ristrutturazione dei vissuti d’angoscia non in termini di proiezione, ma in termini di profonda accettazione e quindi anche di assunzione di responsabilità verso se stessi e gli altri.

La vittima va pertanto aiutata nel processo di ricomposizione interna delle figure sadiche che hanno percorso e condizionato la sua esistenza.

Un processo difficile anche per i tanti alunni delle nostre scuole che affrontano la memoria dell’orrore attraverso le visite, i racconti, le testimonianze, le letture, i filmati. Una didattica centrata sulle pure e semplici ragioni delle vittime non aiuterebbe a capire in profondità cosa è successo e anche cosa fare perché l’orrore non si ripeta.

1.    La sostanziale ambivalenza della memoria e la sua assunzione responsabile

La memoria non è neutra. La memoria rappresenta un condensato ideologico per antonomasia, sia perché rispetto alla storia si caratterizza da caratteri di discrezionalità e di arbitrarietà, in quanto legata al ricordo, ma anche perché la memoria è la modalità stessa di appartenenza sociale. Una famiglia si ritrova nella memoria di un continuum genealogico; un gruppo di fedeli si ritrova nella memoria di un continuum religioso. Entrambi mirano a creare rituali idonei a esprimerlo. Entrambe queste constatazioni tendono a creare la necessità e l’urgenza che la memoria rappresenti un processo educativo, più che un processo staticamente conservativo.

In altre parole, nel caso della violenza si può dire senza mezzi termini che la memoria può impedire o enfatizzare la violenza. A seconda delle modalità in cui l’appartenenza stessa alla memoria si crea, ci può essere un’appartenenza memorialistica di carattere omicida, e quindi violenta, ma ci può essere un’appartenenza di memoria nella logica della riconciliazione, dell’incontro, del dialogo, quindi dei valori più nobili della storia umana. La costruzione di un monumento può incentivare e mantenere la tensione vendicativa, oppure può cercare di dare un senso di riconciliazione e quindi di nonviolenza rispetto agli avvenimenti. Il caso più eclatante fu la costruzione dei Monumenti alla Vittoria, realizzata come operazione ideologica, durante il Ventennio Fascista, ossia come operazione non di riconciliazione con il nemico, ma come operazione di esaltazione della retorica militaristica e bellicistica di cui proprio il fascismo del ventennio volle farsi carico in funzione di una appartenenza ai valori bellicistici della guerra in se stessa.

Il processo di civilizzazione della specie umana passa proprio attraverso l’assunzione responsabile della memoria da un punto di vista educativo, anche quando il vincitore è quello che ha usato meglio la violenza stessa. Basti pensare al caso delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, le bombe atomiche “giuste”, che però non possono prescindere da una ricostruzione storica che dia all’evento la sua giusta collocazione per avere una rielaborazione nella logica del “mai più”, del tabù nucleare, così come in effetti è fortunatamente avvenuto nella storia dell’umanità.

2.    Per una didattica capace di problematizzare

Quale pedagogia può essere utile, efficace all’interno di questo processo così impegnativo? Anzitutto dobbiamo assumere coscienza che è più importante favorire nelle nuove generazioni la capacità di un pensiero critico, libero, consapevole, piuttosto che di un pensiero corretto, anche se questo comporta un grande margine di rischio rispetto agli esiti formativi.

Ribadendo le concezioni dei grandi pedagogisti del Novecento, si può dire che la libertà, intesa anche come libertà di pensiero, è sempre formativa. Al contrario una pedagogia centrata sulla risposta esatta presenta i caratteri del conformismo, dell’assuefazione, dell’assecondamento, che spinge a non cogliere la realtà così com’è veramente, ma a filtrarla secondo degli schemi, che appaiono di volta in volta consonanti a determinate logiche ma scarsamente in grado di fronteggiare le sfide che provengono dalla realtà stessa, per favorire una lettura aperta dei problemi e dei conflitti come parte della vita.

L’orrore nasce anche dall’assunzione di “pensieri unici”, di una logica del “pensiero unico”. Da questo punto di vista i totalitarismi sono anzitutto dentro di noi, dentro la persona, quando è bloccata, incapace di staccare rispetto ai tunnel mentali ed emotivi pregiudizialmente presenti, che impediscono la visione divergente - nel senso dell’empatia - delle realtà personali e sociali.

La deportazione è dentro di noi, quando rinunciamo a vivere al meglio la nostra vita, quando rinunciamo alla nostra creatività e al nostro potere personale. La didattica intesa come insieme di strumenti concreti per attivare processi di apprendimento, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà sostanziale, quindi deve essere una didattica liberatoria, una didattica che rifiuta ogni presupposto, ma che cerca, che mette in discussione, che scandaglia proprio per favorire al massimo l’impiego delle intelligenze personali. Potremmo definire questo progetto didattico nella logica della maieutica, ossia della capacità di attivare apprendimenti in grado di sviluppare risorse interne, di creare un’azione personale e sociale adeguata e pertinente.

3.    L’emozione tirannica e l’emozione che cura

Infine, la memoria dell’orrore è anche e specialmente una memoria emotiva. Le emozioni vi giocano un ruolo assolutamente preponderante. Questo è un riconoscimento importante, perché l’emozione attiva il processo di riconoscimento e quindi anche di conoscenza. Nello stesso tempo, una centratura esclusiva sul versante emotivo rischia di essere totalizzante rispetto a una dimensione di decantazione critica e quindi di possibilità di attivare percorsi di ricerca. È un equilibrio difficile da trovare. Senz’altro in una prima fase il riconoscimento delle emozioni, la possibilità di viverle come parti di sé e di accettarle è indispensabile. Ma è anche fondante in questo lavoro la ricerca di una risposta che tenga dentro l’emozione, che la sappia integrare in una visione più ampia. La tirannia emotiva potrebbe risultare particolarmente invalidante nei processi che dalla memoria ci portano a sviluppare nuovi scenari, a tenere dentro, quindi, il dolore, la sofferenza, per riuscire a immaginare qualcosa di diverso, per non cadere nell’impotenza e nel cinismo che a volte la pura e semplice emotività rischia di generare. Si tratta di un equilibrio fragile, difficile, però quanto mai essenziale a questa didattica della responsabilità. Si tratta di costruire uno “stare al mondo” che tenga conto della sofferenza del passato, ma che sappia anche attivare nelle nuove generazioni un bisogno profondo di riscatto e di un futuro diverso.

Daniele Novara

  


Materiali per una Didattica della Memoria

In questa sezione vengono presentati materiali per l’approfondimento didattico  relativi ai più significativi nuclei tematici che contraddistinguevano la vita nei campi di concentramento: La discriminazione, La lingua sconosciuta, I comandi, La divisa,  La fame, La solidarietà. Leattività sono state ideate da Daniele Novara; le testimonianze, le letture e gli spunti di riflessione sono stati redatti a cura dell’Associazione “Coordinamento Solidarietà e Cooperazione” di Salerno.

Si tratta di proposte che ogni insegnante potrà utilizzare liberamente per approfondire il tema della deportazione e di  tutte le possibili attualizzazioni.

Sono materiali scelti tenendo conto  delle domande che gli alunni possono formulare  in merito a vicende storiche di tale complessità e vicini il più possibile alla loro sensibilità.

La sezione si conclude con indicazioni bibliografiche, filmografiche e riferimenti ai principali siti di consultazione.

 

LA   DISCRIMINAZIONE

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LA LINGUA SCONOSCIUTA

Testimonianze

Natalia Tedeschi  Testimonianza dal lager

Siamo arrivate di notte e siamo state nei vagoni fino al mattino dopo. Quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame, da cui siamo scese, tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano. Abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi, anche lì, ci abbiamo creduto. E poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, selezionando quelli che potevano entrare in campo o meno. Io ero sotto braccio a mia mamma... La mia mamma, che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è stata proprio strappata via dal braccio, è una sensazione che provo ancora adesso... Sento questo braccio che trema, che mi viene portato via... Io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

 

Fonte: Natalia Tedeschi , Testimonianza dal lager , www.testimonianzedallage.rai.it

Isabella Leitner  Frammenti di Isabella

 Probabilmente non saprò mai cosa mi spinse ad annotare queste parole, in effetti a scrivere questo intero resoconto nella mia lingua nativa, l’ungherese, quasi subito dopo il mio arrivo in questo paese, nel 1945. Quel che feci – e dopo così tanti anni – sono felice di averlo fatto.

C’è una lingua inglese, una francese. Una russa, anche una spagnola. C’è una lingua ungherese, una cinese. Secondo la Bibbia, Dio punì l’umanità a Babele con una follia di lingue, ma c’è una lingua che neanche Dio riesce a capire, solo noi possiamo, quelli di noi che furono prigionieri all’ombra dei crematori. Il suo nome è lingua del Lager, e ogni parola vuol dire un modo diverso di soffrire. Blockälteste vuol dire capo di mille prigionieri. Vertreterin, la sua sostituta. Stubendienst, capo di un gruppo più piccolo;  Stubendienstkapo, capo delle Stubendienste. Ma in realtà Blockälteste voleva dire grida animalesche e percosse ancora più feroci; Vertreterin voleva dire inginocchiarsi; Stubendienstkapo, picchiare; Torwache prendere a calci; Zahlappell voleva dire stare sull’attenti per ore, nella pioggia, nel fango, nel gelo, spesso con la febbre alta. Se ti muovevi, non riconoscevi la tua faccia per i ceffoni del Lagerkapo, per i calci dell’Arbeitdienst. Un Plus significava che potevano portare tua sorella in un altro Block. Mengele avrebbe selezionato lì nel pomeriggio. Cerchi tua sorella, ma lei è già su nel fumo, nel Kremchy. (Questa è l’ironia, a proposito, “il Kremchy”). Il Sonderkommando vuol dire che sono terribilmente stanchi di bruciare la gente. Sarebbero felici se oggi venisse fatto più Transport, hanno dovuto bruciarne diverse migliaia da questa mattina. Un Musulmann voleva dire che pesi solo all’incirca 23 chili e che entro il pomeriggio sarai nel  Grese, che andresti al Krematorium piuttosto che capitarle tra le mani. H.K.B. significa che trascini i morti da un campo all’altro e che allora puoi avere una possibilità di organizzare, il cui significato è la possibilità di rubare. Lux è un cane che ti ha staccato pezzi del corpo, ma sei ancora viva. Wurstappell vuol dire che stai in fila per ore e poi ricevi una fetta di salame sottile come la carta. (Era salame? Vero salame? Non può esserlo stato). Pritsch vuol dire che quattordici di noi giacciamo su un asse di legno piena di pidocchi. Se l’asse si rompe – ed era costruita apposta per rompersi – quattordici di noi cadiamo sull’asse inferiore, e poi vent’otto di noi cadiamo sulle quattordici persone che stanno ancora più in basso. Gridano in ungherese, gridano in polacco, e in qualsiasi lingua vengono urlati gli ordini, devi capirli. Kontrolle significa che il coltello che ti sei procurata con la tua fetta di pane, lo nascondi nelle scarpe perché non hai il permesso di avere nulla tranne lo straccio che indossi. Blocksperre significa che non hai il permesso di andare al cosiddetto bagno, ma non hai neanche il permesso di farla nelle mutande e si dava il caso che tu avessi la diarrea.

Parole che non avevamo mai saputo ma che abbiamo dovuto imparare, come in America devi imparare l’inglese, in Svezia, lo svedese; nella Lagerland, il lagerese.

Queste parole non sono interessanti per un estraneo; la maggior parte sono parole comuni con origine tedesca, in qualche modo imbastardite durante il cammino. Sono significative solo perché questo numero limitato di parole è diventata una lingua. Una lingua in cui ogni parola voleva dire sofferenza, e tuttavia una lingua dalla quale dipendeva anche la tua possibilità di sopravvivere. L’unica lingua che importasse. Nessun’altra lingua aveva senso. Nessun’altra era parlata. Queste parole si sentivano di continuo. Si usavano di continuo.

 

Fonte: Isabella Leitner, “Frammenti di Isabella”, Testo redatto con l’assistenza di Ruth Zerner, Lehman College, Mursia Editore, p. 111, 112, 113

Lessico del Lager

Abstand! – State lontani!

Abtreten! – Allontanatevi!Rompete le righe!

Achtung! – Attenzione!

Alles heraus! – Tutti fuori!

Alles in die Zelte! – Tutti nelle baracche!

Antreten! – Nei ranghi!

Appell in die Zelte! – Tutti nelle baracche per l’appello!

Appellplatz – Punto di adunata

Aufpassen! – Fate attenzione!

Aufstehen! – In piedi!

Blockälteste – Detenuto capo delle baracche

Drexlerka -  Soprannome di una donna SS di grado elevato

Grese, Irma – Nome di una sadica donna SS

H.K.B. – Squadra di lavoro (Kommando) per trasportare i cadaveri

Holen – Prendere

Kanada – Un deposito di roba confiscata ai prigionieri appena arrivati

Kapo – Prigioniero al quale veniva data autorità sugli altri prigionieri.

Knien – Inginocchiarsi

Kontrolle – Controllo

 

Lager – Campo

Lageralteste – Detenuto più autorevole del campo

Lagerfuhrerin – Comandante donna del campo

Lagerpolizei – Polizia del campo

Los! – Avanti!

Meldung – Messaggio, annuncio

Musulmann – Prigioniero totalmente emaciato, scheletrito ( pronto per il forno crematorio)

OberkapoKapo superiore

Obersari – Soprannome dell’alta SS Oberscharfuhrer

Oberscharfuhrer – Ufficiale superiore

Organisation; Organizacio – Organizzare; procurarsi ( “rubare”)

Pass amol auf! – Fai attenzione! ( Un ammonimento)

Pritsch – Tavolaccio

Ruhe! – Silenzio!

Ruhetreten! – Riposo!

Schutzhaftling – Prigioniero

Selekcio, Selekcja, Selektion, Szelektàl – Selezione di prigionieri per la vita o la morte

Sonderkommando – Squadra speciale ( addetta a bruciare la gente)

Spokoj ma byc – un ordine polacco per il silenzio

Strafe – Punizione

Strafkommando – Squadra punitiva

Tattoo – Tatuaggio

Torwache – Guardia dell’entrata

Wurstappell – Appello per la salsiccia

Zahlappell – Appello

Zelte – Baracche

Ziegel – Mattone

Per riflettere insieme

 

a) Racconta una situazione in cui era molto importante capire, ma non avevi la necessaria padronanza della lingua.

b) Ti è mai capitato di dover comunicare con qualcuno che non parlava la tua lingua?

    Quali sensazioni hai provato? Quali strategie hai messo in atto per farti capire?

 

 

 


Attività

Il potere delle parole

 

Motivazioni

A tutti è capitato almeno una volta di trovarsi in una situazione in cui ci siamo sentiti esclusi dalla comunicazione perché non padroneggiavamo i codici espressivi del contesto in cui eravamo inseriti : in un Paese straniero, oppure in un gruppo che usa un lessico specialistico, ad esempio i termini legati al computer, il linguaggio abbreviato degli SMS o delle chat, e così via.

In determinati contesti, questo senso di esclusione può essere sfruttato in funzione discriminatoria da parte di chi detiene il “potere delle parole”, per sottomettere l’altro.

Questa attività non si pone tanto l’obiettivo di far sperimentare ai ragazzi in prima persona l’esperienza – già di fatto da loro vissuta, specialmente in ambito scolastico – di trovarsi di fronte a codici e linguaggi poco noti, quanto piuttosto quello di farli riflettere sulle sensazioni che quest’esperienza suscita in loro.

Fasi

a)      L’insegnante divide la classe in gruppi di massimo cinque allievi, e consegna poi a ogni gruppo un foglietto che riporta frasi contenenti parole molto inusuali o difficili  o parole di origine straniera, tali da farle risultare il più possibile incomprensibili (come “L’enuresi notturna posta in essere dal soggetto nella sua evoluzione diacronica coinvolge patologicamente l’intero clan familiare”, oppure  “Il kebab divorato sul marciapiede gli rovinò il lifting appena effettuato col botulino presso una beauty-farm”, “Il noto faccendiere elvetico ha ricevuto un avviso di garanzia per millantato credito“, “Gli impressionisti ricorrevano spesso alla tecnica del puntillismo dissociativo e a lumeggiature ispirate dalla pittura en plain air“, “Il discobolo nerboruto scagliò l’attrezzo ginnico ad una distanza che parve incommensurabile agli astanti”, “Un orizzonte plumbeo e bigio aduggeva il day after del fungo atomico, appestato da mefitici miasmi”); o, in alternativa, si potrebbero scegliere azioni o compiti da eseguire, anch’essi di difficile comprensione, come per esempio “Con la tecnica del bricolage, imbozzimate un A4 con una resina viscosa, lasciate agglutinare  e rescindete il tutto in parti uguali“.

b)      I ragazzi non possono assolutamente ricorrere all’aiuto dell’insegnante per cercare di comprendere il significato dei termini sconosciuti.

c)      Ogni gruppo ha 10 minuti a disposizione per cercare di tradurre in un linguaggio di facile comprensione le frasi, annotare l’interpretazione concordata fra i vari membri e designare al proprio interno un portavoce. Trascorso questo termine,  l’insegnante chiede ai portavoce dei singoli gruppi la definizione trovata.

d)      Viene infine messo a disposizione di ogni gruppo un dizionario per arrivare alla corretta interpretazione delle frasi proposte.

 

Laboratorio

Seduti in circolo, si riflette sull’importanza delle parole e sui sentimenti che l’esperienza ha suscitato:

a)     Che sensazioni avete provato sia a livello individuale che di gruppo di fronte ai termini sconosciuti?

b)    La difficoltà nella comprensione del testo che ti è stato consegnato ti ha inibito o ti ha stimolato ad attivarti per trovare una soluzione? Sei stato propositivo o ti sei adeguato alle proposte di altri?

LA DIVISA

……………………………

 

I COMANDI

…………………………….

                                                  

 LA FAME

……………………… 

LA SOLIDARIETÀ

…………………….


BIBLIOGRAFIA

 

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Bibliografia per ragazzi

 

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FILMOGRAFIA

 

· Süss l'ebreo (1940), Veit Harlan
· Il Grande Dittatore (1940), Charlie Chaplin
· Così finisce la nostra notte (1941), John Cromwell
· Roma città aperta (1945), Roberto Rossellini
· L'ultima Tappa (1948), Wanda Jakubowska
· Il grido della terra (1949), Duilio Coletti
· I Perseguitati (1953), Edward Dmytryk
· Notte e Nebbia (1956), Alain Resnais
· Il Processo di Norimberga (1958), Feliz Podmaniczky
· La Stella di David (1959), Konrad Wolff
· Il Diario di Anna Frank (1959), George Stevens
· Kapò (1959), Gillo Pontecorvo
· Il destino di un uomo (1959), Sergej Bondarciuk
· Il nono cerchio (1960), France Štiglic
· Jovanka e le altre (1960), Martin Ritt
· Vincitori alla sbarra (1961), Frédéric Rossif
· L'oro di Roma (1961), Carlo Lizzani
· La passeggera (1963), Andrzej Munk e Witold Lesiewicz
· Fuga da Mauthausen (1963), Edwin Zbonek
· L'Uomo del Banco dei Pegni (1965), Sidney Lumet
· Judith (1965), Daniel Mann
· Andremo in Città (1966), Nelo Risi     

. L’uomo da abbattere (1967), Philippe Condroyer
· Il Giardino dei Finzi Contini (1970), Vittorio De Sica
· Paesaggio dopo la Battaglia (1970), Andrzej Wajda
· La Confessione (1970), Constantin Costa-Gravas
· Il Portiere di Notte (1974), Liliana Cavani
· Cognome e nome: Lacombe Lucien (1974), Louis Malle
· Mr Klein (1976), Joseph Losey
· La Linea del Fiume (1976), Aldo Scavarda
· Le Deportate della sez. speciale SS (1976), Rino Di Silvestro
· La vita davanti a sé (1977), Mushe Mizrahi
· Giulia (1977), Fred Zinnemann
· I Ragazzi venuti dal Brasile (1978), Franklyn J. Schnaffner
· Olocausto (1978), Marvin J. Chomsky
· L'ultimo metrò (1980), François Truffaut
· La Barca è piena (1981), Markus Imhoof
· Playing for Time (1981), Daniel Mann
· Diritto di offesa (1981), Herbert Wise
· La Scelta di Sophie (1983), Alan J. Pakula
· Daniel (1983), Sidney Lumet
· Shoah - Olocausto (1985), Claude Lanzmann
· Tornare per rivivere (1985), Claude Lelouch
· Arco di trionfo (1985), Waris Hussein
· Arrivederci Ragazzi (1987), Louis Malle
· Fuga da Sobibor (1987), Jack Gold
· Ritorno a Berlino (1988), Leonardo Tosi
· Nemici una Storia d'Amore (1989), Paul Mazursky
· L'amico ritrovato (1989), Jerry Schatzberg
· Music Box (1989), Constantin Costa-Gravas
· Non dire falsa testimonianza (1989), Krzysztof Kieslowsky
· Marta ed Io (1990), Jiri Weiss
· Europa Europa (1990), Agnieszka Holland
· L'Orologiaio (1990), Klaus Maria Brandauer
· Max e Helen (1990), Philip Saville
· Dottor Korczak (1990), Andrzej Wajda
· Jona che visse nella Balena (1993), Roberto Faenza
· Never forget (1994), Joseph Sargent
· Schindler's List (1994), Steven Spielberg
· 18.000 giorni fa (1994), Gabriella Gabrielli
· Testimoni (1995), Anna Missoni
· La Tregua (1996), Francesco Rosi
· La settima stanza (1996), Marta Meszaros
· Memoria (1997), Ruggero Gabbai
· La vita è bella (1997), Roberto Benigni
· Gli ultimi giorni (1998), James Moll
· Train de Vie (1998), Radu Mihaileanu
· Comedians Harmonist (1999), Joseph Vilsmaier
· Jacob il bugiardo (1999), Peter Kassovitz
· Il cielo cade (2000), Andrea e Antonio Frazzi
· Concorrenza sleale (2001), Ettore Scola

. Rosenstrasse (2003), Margarethe von Trotta

. Il Pianista (2003), Roman Polanski

 


SITOGRAFIA

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http://www.auschwitz-muzeum.oswiecim.pl/
Complesso concentrazionario di Auschwitz (in lingua polacca/inglese/tedesca).

http://www.buchenwald.de/
Lager di Buchenwald (in lingua tedesca/inglese/francese).

http://www.kz-gedenkstaette-dachau.de/
Lager di Dachau (in lingua tedesca/inglese).

http://www.flossenbuerg.de/
Lager di Flossenbürg (in lingua tedesca).

http://www.fondazionefossoli.org/
Lager di Fossoli (in lingua italiana).

http://www.mauthausen-memorial.gv.at/
Memorial del Lager di Mauthausen (in lingua tedesca/inglese).

http://www.ravensbrueck.de/
Lager di Ravensbrück (in lingua tedesca/italiana/francese/inglese/polacca).

 

Altri siti sull'argomento

 http://www.deportati.it/
ANED, Associazione Nazionale ex Deportati politici nei campi nazisti (in lingua italiana/inglese/francese/tedesca).

http://www.cdec.it/
CDEC, Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (in lingua italiana).

http://www.kora.it/mauthausen
Sito italiano sul campo di sterminio di Mauthausen, realizzato nell’anno scolastico 1998-99 da una classe di studenti e vincitore del Concorso Ministeriale "Il '900. I giovani e la memoria" (in lingua italiana).

http://www.vhf.org/
Survivors of the Shoah Visual History Foundation (in lingua inglese).

http://www.yad-vashem.org.il/
Yad Vashem, Holocaust Martyrs' and Heroes' Remembrance Authority (in lingua inglese/ebraica).

http://www.ushmm.org/
Archivio USHMM, United States Holocaust Memorial Museum (in lingua inglese).

http://www.wiesenthal.com/
Simon Wiesenthal Center (in lingua inglese).

http://www.shoa.de/
Sito tedesco dedicato ai temi, ai luoghi e ai nomi dell’olocausto.

www. olokaustos.org

Sito tutto dedicato all’Olocausto, ricco di documentazione, biografie, links che rimandano ad alcuni luoghi di memoria in Italia

www.fondazionefossoli.org

Sito dedicato alla storia dell’ex campo di concentramento di Fossoli e al Museo Monumento al Deportato Politico e Razziale. Ricco di informazioni relative alle attività svolte dalla Fondazione Fossoli dal 1996 ad oggi.

www.triangoloviola.it

Sito dedicato all’Olocausto dei Testimoni di Geova

www.weblab900.it/tuttaunaltrastoria/conten/zingari.htm

Per l’Olocausto degli zingari

http://donne.virgilio.it/itinerari/457/index.html

La Shoah delle donne. Sito di testimonianze al femminile



[1] C. Cantù (a cura di), Fior di memoria pei bambini, Stabilimento Volpato, Milano 1851.

[2] Vedi di Daniele Novara “L’esercizio della memoria e la formazione infantile”, in D. Novara, S. Mantovani, Bambini ma non troppo. L’infanzia smarrita in un mondo senza memoria, La Meridiana, Molfetta 2000.

[3] Nel 1528 sul sito di un antico tempio induista venne eretta una moschea. Oggi il tempio è ancora conteso fra induisti e musulmani.

[4] Anna Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubattino, Cosenza 1998.

[5] Milan Kundera, L’ignoranza, Adelphi, Milano 2001.

[6] Id., pagg.118-119. Per un approfondimento scientifico vedi A. Oliverio Ferraris, L’arte di ricordare, Rizzoli, Milano 20002, in particolare il capitolo 6.

[7] F. McCourt, Le ceneri di Angela, Adelphi, Milano 1997.

[8] Per approfondire vedi D. Novara, “Le strutture genealogiche della violenza e gli interventi di solidarietà educativa”, in AA. VV., Volontari nel mondo, La Meridiana, Molfetta 2001.

[9] Per analisi pedagogica intendo la capacità di leggere determinate situazioni usando strategie educative attinenti le modalità di apprendimento dell’individuo.

[10] E. Fried, È quel che è, Einaudi, Torino 1988, pag.89.

[11] Sempre attuali sono al proposito le ricerche di Alice Miller. Vedi: L’infanzia rimossa, Garzanti, Milano; Il dramma del bambino dotato, Boringhieri, Torino.